16/04/17

Le duemila detenute invisibili rinchiuse nelle prigioni italiane

Da osservatorio repressione
 
Le donne rappresentano solo il 4 per cento della popolazione carceraria italiana. «Rischiano di diventare invisibili e insignificanti» spiega il garante. Mancano i ginecologi, ci sono pochi spazi a disposizione, minori opportunità. Senza dimenticare il dramma dei 40 bambini reclusi con le loro madri

Rappresentano una realtà piccola, quasi marginale. Su 55mila detenuti nelle galere italiane, le donne sono solo 2.338. Il 4,2 per cento della popolazione carceraria. E questo le rende vittime di un paradosso. La minore capacità criminale si rivela un fattore penalizzante. «La detenzione da sempre è pensata al maschile e applicata alle donne che, proprio per la loro scarsa rilevanza numerica, rischiano di diventare invisibili e insignificanti per il sistema penale». A chiarire il concetto è il garante per i detenuti, che poche settimane fa ha presentato la sua relazione annuale in Parlamento.

Le donne in carcere non sono molte, con tutte le difficoltà che questo comporta. Nel Paese ci sono solo quattro istituti penitenziari femminili: a Trani, Pozzuoli, Rebibbia e Venezia-Giudecca. Quattro strutture che potrebbero ospitare 537 detenute, ma ne accolgono 589. La gran parte delle donne, così, sono distribuite nei 46 reparti femminili che si trovano all’interno di istituti maschili. È così per 1.749 recluse. Per loro la detenzione rischia di essere ancora più dura. «Le sezioni femminili negli istituti maschili – spiega il garante – rischiano di essere, ancora una volta per la loro esiguità numerica, dei reparti marginali, in cui le donne hanno meno spazio vitale, meno locali comuni, meno strutture e minori opportunità rispetto agli uomini». Qualche esempio? Nella casa di reclusione di Genova-Pontedecimo i detenuti di sesso maschile possono usufruire di una palestra, spazio precluso alle donne. Per gli uomini sono previste salette di socialità in ogni piano? «Nelle sezioni femminili la socialità si fa in corridoio». Il tutto permeato da una vecchia concezione sociale che limita le attività femminili ad antichi stereotipi: se i detenuti possono partecipare a programmi di informatica e tipografia, le detenute possono lavorare solo in cucina e sartoria. Con evidenti ripercussioni in termini di reinserimento sociale. Pur riconoscendo gli sforzi dell’amministrazione penitenziaria, così, il garante auspica un nuovo approccio che riconosca le differenze di genere, introducendo «una specificità della detenzione femminile rispetto a quella maschile». Il motivo è semplice: «Lo stesso trattamento per donne e uomini non produce risultati equi».
Gran parte delle recluse sono distribuite nei 46 reparti femminili che si trovano all’interno di istituti maschili. Per loro la detenzione rischia di essere ancora più dura. «Sono dei reparti marginali, in cui le donne hanno meno spazio vitale, meno locali comuni, meno strutture e minori opportunità rispetto agli uomini»
Un’interrogazione depositata pochi giorni fa dal senatore Francesco Campanella descrive una realtà ancora più drammatica. Citando il noto programma di Radio Radicale “Radio carcere”, di Riccardo Arena, il documento denuncia: «All’interno delle carceri italiane, oltre agli spazi carenti, poca igiene e sovraffollamento, le donne sono costrette a vivere la detenzione con l’assenza di ginecologi o pediatri spesso irreperibili, difficoltà a procurarsi assorbenti e saponi per l’igiene intima». A volte per una donna la detenzione rappresenta una doppia pena. L’interrogazione parlamentare cita un’intervento di Donatella Zoia, medico dell’unità operativa per le tossicodipendenze a San Vittore. «Nella società sono solitamente le donne a portare il maggior peso di responsabilità affettiva. Quando una donna finisce in carcere, fuori ci sono sempre i figli, una madre, un padre, a volte anche un marito che contavano su di lei e che restano abbandonati e senza sostegni. E così la detenuta, oltre al peso della carcerazione, si sente colpevole di averli lasciati soli, si sente responsabile per non poter far nulla per loro e somatizza il suo malessere». Non di rado ne derivano conseguenze fisiche. Dai disturbi al ciclo mestruale, all’ansia, ma anche depressione, anoressia e bulimia.
«All’interno delle carceri italiane, oltre agli spazi carenti, poca igiene e sovraffollamento, le donne sono costrette a vivere la detenzione con l’assenza di ginecologi o pediatri spesso irreperibili, difficoltà a procurarsi assorbenti e saponi per l’igiene intima»
E poi ci sono le madri. Al 31 gennaio scorso le donne detenute con i loro bambini erano 35, per un totale di 40 minori rinchiusi. Diciannove recluse erano nelle sezioni nido degli Istituti di pena, sedici negli Istituti a custodia attenuata per detenute madri (Icam). La vicenda di queste donne rappresenta ancora «una criticità che chiede soluzioni» ammonisce il garante. La situazione penitenziaria italiana mostra situazioni molto diverse tra loro. Alcune sezioni nido sono realtà virtuose: non mancano «reparti attrezzati, accoglienti e ben collegati con il territorio». Altri sono del tutto inidonei. La relazione al Parlamento evidenzia la situazione della sezione nido della Casa circondariale di Avellino. La cella nido dedicata alle madri con bambini è, di fatto, una stanza detentiva a due «priva di qualsiasi attrezzatura necessaria per ospitare bambini così piccoli». L’Istituto, si legge ancora, non ha mai attivato una collaborazione con l’asilo nido del territorio. E a pagarne le spese sono soprattutto i bambini, costretti a vivere una detenzione a tutti gli effetti senza aver commesso alcuna colpa. «Di fatto i bambini vivono nella sezione detentiva comune, in celle prive delle dotazioni necessarie, in un contesto difficile anche per gli adulti, senza rapporti con le scuole o le organizzazioni locali».

La maternità dietro le sbarre rappresenta uno dei capitoli più dolorosi. E non solo durante la difficile convivenza in cella con i propri figli. «Lo choc maggiore – si legge nell’interrogazione del senatore Campanella – arriva quando il bimbo compie tre anni: è il momento in cui la legge prevede che il minore debba uscire e la maternità si interrompe». Eppure nelle carceri italiane non mancano casi positivi. Nella casa circondariale di Venezia-Giudecca, una delle poche dedicata alle donne, le madri detenute riescono a mantenere significativi rapporti con i figli che vivono all’esterno. Ad esempio seguendo via Skype i bambini al momento di fare i compiti. A Roma, altro esempio virtuoso, è stata recentemente aperta una casa famiglia protetta per accogliere genitori agli arresti domiciliari e in misura alternativa. Realtà da valorizzare, ma ancora poco diffuse.

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